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Canio Mancuso


Selección de poemas de Il lato destro dell’armadio

de

Canio Mancuso

Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, Italia, 2018


I collect your stories,
stones for my pockets 
to hold me down
when the root goes

Karen Press

 

 

Ai miei genitori,
al debito non pagato

 

 

Il nome

 

Il tuo nome fai fatica a starci dentro.

Vedi la mezza luna quasi piena  

della lettera con cui comincia:

ti illudi di riposarci la schiena

tanto è rotonda e morbida la sua promessa.

Invece è la consonante

inopportuna di Come? Cosa?

Quando senti pronunciare il tuo nome

riconosci dall’abbrivio spaventoso

l’invito della guardia di confine

a dichiararle qualcosa.

Giusto il tuo nome;

l’espressione eretica delle impiegate

che se lo passano rimpicciolito

di bocca in bocca per credere a una parola.

Ti scrutano in agguato tra le ciglia

ti chiedono di esibire le prove

della tua inconsistenza terrena.

Le prove sigillate nel nome.

Non ci stai dentro tutto nel tuo nome:

spunta sempre un pezzetto

un piede che dondola dal bordo

ma non è un’amàca non ci puoi stare comodo

rimanere in silenzio farti aspettare:

è un punteruolo per entrarti nel fianco

grattare la vernice - la chiamano così -

dell’essere-apparire

raschiare quel po’ di colore

che somiglia a un sorriso

ed è un suono di due sillabe

che dà il via allo scavo:

chi ti chiama per nome

vuole impararti saperti controvoglia

occuparti un centimetro alla volta

o peggio tutto insieme da radice a radice

da quella dei capelli a quella dei respiri.

Chi ti nomina ti ribalta

senza chiederti il permesso

e tu speri che il tuo nome

ti nasconda in un cappuccio

a quelli che hai davanti

e intorno tutti con lo stesso nome

diverso dal tuo così disabitato

che suona come quello di un indiano pellerossa

(sai gli uomini che si accigliano e sono nuvole

o fanno la guerra e sono lampi notturni

o falconi insonni: il nome personale

a ciascuno il suo

fatto di un pane che non si condivide.)

Ti capita di morire

e allora il nome ti si scioglie addosso

sbrilluccica come un barattolo

legato alla marmitta di un’auto senza sposo

e tu rimani lì da dove sei partito.

Lo incidono sul legno sulla targa

che illumina il tuo vuoto

e tu dall’uovo in cui sei rientrato

con l’anima mischiata alle frattaglie

da dietro al guscio in cui te ne stai composto

nel tuo corpo nuovo

con le tue unghie liquide

non riesci a cancellarlo.

Il nome che continua a schiarirsi la voce

sotto la luna e sotto il sole

anche se ti ha dimenticato. 

 

  

Appendice al discorso del nome

 

C’è anche il nome che credi di abitare

finché non lo senti uscire da una bocca

sformato dalla pronuncia chiara

confusa cambia poco: non rispondi

(ce l’hanno con tuo cugino portatore disinvolto

del nome nonnesco di seconda mano?).

Il nome illusorio numerato soffio di una voce

che non riconosci si rivoltola

con te nei sogni voce di sabbia

che ti chiede un bacio tu non puoi rispondere.

Non è lo stesso nome detto

tre volte da chi sta morendo prima di te

tuo padre che ti chiama e ti dice

parole misteriose non ne capisci una:

non sai se le strascica la luce intatta

del desiderio di portarti a Parigi  

le carezze sconosciute del mondo

un rimprovero l’ultimo

un po’ più rumoroso allegro

come il corpo che impara a non esserci.

Ogni tanto le riascolti

per indovinare il senso del discorso

ma il nome che ti ha dato tuo padre

un regalo sbagliato un’impronta sulla faccia

è l’unica condanna che comprendi.



Piccole manovre dell’abbandono

 

Le prime a cadere sono state le piante

non per volontà del tempo o del destino

ma del finto giardiniere

che le aveva ficcate nella terra.

Messe lì per dominare sulla voragine

del cortile erano ridicole: uno sbuffo verde

intorno al grigio su quattro righe di terra

macilenta quattro aiuole fallite

con un po’ di impegno tombe di passeri

neanche i vermi ci dormivano comodi.

Affacciate sull’asfalto in coda alle automobili

parevano sfottere non si sa cosa:

la natura la tecnica l’arte dell’equilibrio.

Ma erano piante vere con la linfa e foglie

che cadevano davvero e rinnovavano

il cerchio dell’esistenza i suoi disegni,

trattandosi di alberi, sempre concentrici.

Gli uccelli che ci stavano al riparo

erano veri uccelli con le piume e il becco

e anche le cicale d’estate facevano

le loro pernacchie ascellari che sentivi

fino allo sconquasso del cuore

nel sonno pomeridiano.

Le piante avevano radici che spaccavano

l’asfalto: formavano crepe sulla superficie

come quelle sulla crosta del pane.

Perciò decisero di abbatterle

le piccole e le grandi:

il pino di tredici metri

e la pianta di rose aggrappata al cancello

(ogni tanto una mano giallastra

ne prendeva una per portarla in chiesa

e io che non sapevo i nomi dei fiori

odiavo quella mano perché

sporcava la morte delle rose o così credevo).

Ma quella pianta forse era già marcita

in un fosso prima del massacro.

Poi è stata la volta degli animali

gli occhi notturni della casa:

una bastardina ermafrodita

mezza chihuahua mezza tina pica

un’idea storta a forma di cane.

Abbaiava per dimostrare al mondo

di non essere un’invenzione messicana

ma con un’ottava più alta incarognita

che pensavi ai rimproveri ululati

dalla nonna catarrosa

ubriaca di vino e acqua a cui il nipote rubava i giocattoli.

Aveva tanto coraggio quella nonna-cane

finché ti restava in braccio e da lì

sfidava gli eserciti e i camorristi

e che schifo aveva dei suoi simili

cani senza rimedio e del sesso

miserabile che le offrivano.

Femmina disponibile e cialtrona

nel tête-à-tête col cibo

l’unico maschio che non la spaventasse.

Vederla morire nell’agonia di una notte

la traccia sempre più debole del fiato

che le increspava il labbro sopra il dente

a fondo nella paralisi degli occhi

sbarrati dalla sorpresa Dio cane sto morendo –

fu quasi un allenamento alle altre veglie.

E una coppia di gatti vissuti more uxorio

(tradendosi il giusto da buoni borghesi).

Lui con la faccia napoletana

scavata sotto gli zigomi i lineamenti mobili

del comico: ci leggevi la gioia l’angoscia

la noia del niente di nuovo nel deserto.

Mai visto prima un gatto così trasparente

così impoetico.

Lei gonfia come un enorme bignè tigrato

per via di un’operazione:

lei gatta-moglie-madre lui gatto-ragazzo

in pantofole con poche opinioni

e nessun segreto. Lui morì per primo

lei tre mesi dopo schiantata dal lutto

come Giulietta e Sandra.

I gatti ti insegnano a morire:

basta guardarli scherzare sullo sprofondo

abbuffarsi e fare debiti l’ultimo giorno

seguire la curva fino all’impatto

col moralista che arriva contromano.

Infine è toccato agli uomini:

quello che aveva piantato

gli alberi e le rose il finto giardiniere

competente almeno una volta

chi aveva allattato i figli dei gatti

e portato a spasso il cane sgorbio ermafrodito

il sesso che chiedeva l’ultima confidenza

della lingua il corpo sgonfiato del padre

senza rifugio tra le lenzuola bianche oscene

il ventre della madre posata su un tavolaccio

e anche lì in quelle morti tanto umane

non ci vedevi la volontà del tempo

e del destino ma un’altra che non era

quella che strappava le rose

e neanche quella sottintesa di Dio

nessun distacco nessuna morale

nessun commiato nessuna pace

nemmeno una schiuma di eternità

solo un contraddirsi per sparire meglio

di tutto ciò che nasce e fa rumore:

uomini animali piante

occhi bocche parole versi

e la loro maldestra inclinazione all’assenza.



Allinearsi

 

Il momento in cui col pretesto

delle cose che prendono forma

tutto segue una linea imprecisa:

lo sguardo di chi ti odia uccide il tuo vicino

il bla bla dei corpi stesi al sole

ha la trasparenza delle meduse

i ricordi delle meduse parlano

di rivoluzioni finite sulla spiaggia

il rossetto deraglia oltre il solco delle labbra

il bacio lo segue e sbaglia strada anche lui

il tacco si spezza sulla passerella

e non succede altro solo un inconveniente

l’andare che si inceppa nessun effetto comico

il prete consacra l’ostia e pensa a sua madre

la madre che non sa il francese dice al figlio

j’ai prié pour toi il figlio sospetta

che il dottor Stevenson abbia ragione

quando parla di ferite del corpo

che emigrano con l’anima

ma non può verificarlo perché

il dottore è morto prima di sua madre

un pensiero impreciso come tutto il resto. 

 

 

Geometria delle coincidenze

 

Abitano sulla stessa scala

del palazzo di un rione quasi borghese

un’enclave di dialetti terroni

incolonnati come vertebre

nella carne dello stare al mondo.

Si ignorano come tutti i vicini di casa:

se tra loro c’è una fraternità

è sempre al di qua della simpatia

del fastidio di salutarsi

è la natura che li lega

a un invisibile filo di sangue.

Le marionette di carta che si aprono

come frasi identiche

non hanno sguardi meno bianchi

delle loro fantasie -

il paragone è facile non gli piacerebbe.

Al primo piano un uomo di quarant’anni

una madre spagnola un padre autarchico

che gli fa la spesa e ogni tanto piange

se lo vede ubriaco quel figlio

allevato in cortile diventato pazzo

per avere scambiato il no di una donna

col do delle trombe del giudizio. Capita.

La ragazza che gli fa eco al secondo piano

insulta sua madre vorrebbe sparire

per non somigliarle diventando vecchia

coi capelli ingrommati di tinta

l’alito degli alveoli vuoti

ma ogni sera le chiede il favore

di rimboccarle le coperte.

Al terzo piano c’è un professore

di cucito e di economia.

Ha spesso due macchie nelle mutande

quella davanti è la sua preferita.

Spia l’oltremondo con il telescopio

mentre impara la lezione del giorno

che ripete nel suo nascondiglio.

Pensa alle notti degli innamorati:

gli basterebbe un posto

nelle fessure dei loro sguardi

e nelle altre di cui si vergogna.

Indovina le traiettorie

dei baci e delle carezze.

L’infermiere del quarto piano

sa fare punture di precisione

sotto le unghie dei piedi.

Mette la divisa del fratello

che abita di fronte e gli presta gli aghi

e anche i pensieri che lo accoltellano

non sono suoi ma gli guastano il sonno.

La vedova che sta al quinto piano

crede che le abbiano fatto il malocchio

che il diavolo sorrida dentro il cognato

podista dilettante che voleva sposarla.

Il giorno che il cuore gli scoppiò

durante una gara che arrivava a Faenza

rimase a terra col suo amore cattivo.

Lei non versò una lacrima

che non avrebbe versato

per un povero cristo senza nome.

A chi non capiva la sua indifferenza

rispondeva che tutto ha un significato:

ricordare un nome come dimenticarlo

accarezzare un volto come graffiarlo.

Dio non è un impresario del baratto

e per questo avrebbe pregato.

Vivono tutti sulla stessa scala

si confondono con gli altri pazzi

ma non vogliono incuriosirti:

non scrivono versi non dipingono

indossando sottane per sentire

un respiro vinoso nel corpo.

Non eccitano la retorica

del genio imbottigliato nel delirio.

Non testimoniano il disordine del mondo

e neanche il loro.

Gli anatomisti dello stupore

i bravi a sorprendersi i commossi 

non saprebbero cosa farsene

di un caos così inconcludente

che rifiuta la poesia e la prosa. 

 

 

Consulenti

 

Le ottantenni che arrancano col carrello

della spesa e si arrampicano sui marciapiedi

con l’anima aggrappata al fiato

che le zavorra al piano orbitale

un telecomando che le trascina

dalla casa al mercato dal mercato alla casa

sembrano sgretolarsi a ogni colpo dei tacchi

sul basolato scelto dal sindaco.

Dici ecco ora cascano e si sfarinano

senza un lamento o fanno in tempo

a invocare la Madonna come mio nonno

trafitto da un ferro da materasso.

Ma lui era un ragazzo e poteva morire.

Loro invece no non moriranno

lo hanno giurato chiudendo la porta

prima di uscire all’avventura

tra occhiate e insulti sparati a salve

da figlientrocchia di tredici anni.

Se per sbaglio gli passi accanto

ti danno consigli sugli investimenti

la crisi economica è un trucco di Giuda

per portare al governo i falsi invalidi

la psicologia è roba da scemi

col sesso avvizzito tra le cosce

ascolta loro che sanno a memoria

le parole che bruciano il petto ai giovani

come te nati per la guerra che si combatte

nei condomini spaventosi di silenzi

e di abbai nel veleno delle anticamere

degli uffici ministeriali. O sei forse disoccupato?

Non credere ai venditori di tappeti a reazione

a meno che non facciano buoni prezzi:

quello che hanno comprato il mese scorso

non si alzava più di un metro da terra

e poi ricadeva nella polvere.

Dai retta a loro che hanno vissuto

quasi un secolo quello passato

rotolato a valle con le ossa dei martiri

e dei mendicanti le frasi mischiate

di oro e merda che uccidono i giudici

più del tritolo - lo ha scritto un giornale

non ricordano il nome.

Le ascolti nei loro salmi furiosi

che chiedono di reggersi al tuo braccio

le ascolti le detesti perché sono nate

prima del ’49 l’anno di tua madre

che non dava consigli lungo la strada

per evitare lo sporco dei cani

non portava mai il carrello appresso

ed è finita dentro una buca

nella voragine di una stregoneria

succhiata giù da un magnete di cristallo.

Non fai in tempo a dire alle vecchie

che non ti chiamino più ragazzo ché hai

i tuoi anni e molti li hai chiesti a Dio

per non imboccare la strada del sole

intanto quelle lasciano la muta

delle lucertole ringiovaniscono

all’improvviso sgusciano via rapidissime

si risposeranno torneranno vedove

chissà dove in quale universo.

Lì accanto a te resta appena un’orma  

sul pavimento una pozzanghera

di giudizi scontati sdentati immortali

come un raccapriccio che insanguina l’erba. 

 

 

Il lato destro dell’armadio

 

Nessuna devozione per gli oggetti

che non ci appartengono più

la memoria sta in piedi da sola.

Bisogna alleggerire lo scomparto

del marito onorare la vedovanza

cancellando le impronte superflue

coi segni dei polpastrelli e il sudore

nelle scarpe. Butterà le giacche

e le grucce-imitazioni di clavicole.

Non soffiare via la forfora dal pettine

è ridicolo come il pensiero

delle mani nei guanti.

Si accorge che le immagini svaporano:

conserverà le fotografie.

Inizia a parlare con un volto

si vergogna: quei ritratti disonesti

nella loro confidenza

gli occhi del marito

in posa per il fotografo

scheggiano appena il vetro.

La memoria sta in piedi da sola

nella foto è lei a farsi da parte.

 

 

Contrordine

 

Una casa si svuota

le città dentro la casa si svuotano.

Non ci sono madri né padri

né figli di mezza età da allevare.

Chi ha rimodellato le loro cellule altrove?

Gli oggetti inutili resistono

fanno il loro dovere si rompono

gli arnesi fatti per non essere usati,

ogni pezzo si separa dal suo alloggiamento.

Sentire lo strazio di un pomello

che si stacca dalla specchiera:

è la protesta del suo cuore fermo.

Protesta anche tu mangia la mollica

non separarla dalla crosta.

 

 

Disobbedienza

 

Sai che dorme senza cuscino

in quel suo modo di avere ragione

e immagini che sia possibile

mettere pace tra sonno e risveglio

allenare il battito come fa lui

per alzarsi presto e camminare  

venti chilometri sulla punta dei piedi

fino all’acqua delle caldane.[1]

Aspetta fuori dalla chiesa

che la messa finisca in un congedo

militaresco sciogliete le file 

per lui un altare somiglia a un altare

un affresco è un dazebao di colori.

Può credere alla balbuzie di una predica

e all’amnesia di chi la pronuncia

non chiedergli anche di credere in Dio.

Il tempo del lavoro e poi il riposo

la noia balsamica delle ore

l’abitudine a non contraddirsi.

Un pomeriggio è entrato in chiesa

in una luce fiacca: i fiori erano freschi

il volto di una donna appassiva.

Voleva salutarla; è entrato in chiesa

con il pudore dell’ospite che non sporca

un bicchiere ha ascoltato parole

che lo molestavano non le condivideva

ma le ha ascoltate sgranando le sillabe

ha mescolato il suo amen con quello dei credenti.

 


Paura dei consolatori

 

Oscura gli specchi si arrotola

come una stuoia sotto il letto

perché non lo trovino ma qualcuno

sente l’odore del sonno e del fiato.

Passa una mano di grigio

sulla sua ombra per coprirla ma

qualcuno lo chiama perché lo ha visto

svoltare l’angolo avvolto nel cellophane.

Si preme a fondo nel portaombrelli: non respira.

Non può nascondersi neanche la notte:

un rumore lo stana dal suo vizio.

Arrivano i comici malati di Alzheimer

vogliono divertirlo ripetono

i loro atroci scioglilingua

(se almeno li ricordassero).

Lui gli rinfaccia i loro fallimenti

per azzittirli ma non ci riesce:

gli spiaccicano la morale sul muso

gli fanno il solletico sulla pancia

gli mettono le mani nelle mutande

lo costringono ad ammettere i suoi torti.

Vogliono farlo ridere alle sue spalle

inutile spegnere il televisore

i loro gesti scivolano lungo i muri

vogliono consolarlo.



Réclame

 

La vetrina delle pompe funebri

più sorridente di una salumeria

così invitante di buon gusto

nello starsene appartata in un vicolo.

Non si sporca mai con il baccano

della concorrenza e i suoi necrologi

pieni di refusi spudorati.

Il titolare truccato da amico

dei vivi decanta la perfezione

delle rose disegnate sul legno

le innaffia con lo sguardo:

Sono belle, vero? Sì, sono belle

puoi sentirne il calore

le radici che crescono nel tuo naso.

 

 

Reading

 

Il poeta colombiano fissato

con il senso letterale legge

poesie affollate di colombi.

Nei suoi versi i colombi non si contano

e tutti fingono di cercare briciole.

Tu da fanatico delle allegorie

ci vedi dentro una storia di simboli -

gli albatri e i gabbiani e i corvi eccetera.

Alzi il dito per fare una domanda.

In quell’istante il poeta allunga

un braccio: dalla manica slargata

esce una nuvola di colombi

domestici selvatici colombe

degradate a piccioni colombacci

con gli occhi plastificati

da chirurghi in pensione. 

Sbuca una tortora in libera uscita.

L’uccellame invade la stanza gira

intorno alle sedie fa finta di cercare

briciole. Speri nel gioco di un regista

inglese ma riconosci subito

la coppia di piccioni cresciuti

dai tuoi genitori: appena il tempo

di impararne la lingua

hai visto tua madre che li spennava

per il pranzo della domenica.

Riconosci il piccione che tuo padre

teneva legato a un guinzaglio

per guardarlo passeggiare

dentro il cortile dal balcone.

Cosa rendeva sacro quel volatile

 rispetto agli altri cucinati

con disinvoltura a parte il fatto

che non sapeva volare?

Pensi al ruolo oscuro dei piccioni

nella tua esistenza quando il poeta

con enfasi latinoamericana

disegna un cerchio nell’aria.

La nuvola rientra in volo

nella manica. Il poeta si scusa

non voleva spaventare nessuno.

Ribadisce che le sue poesie

parlano di colombi e di piccioni

chi pensa ad altro si sbaglia.

Qualcuno applaude poco convinto

un altro resta in silenzio tu sospetti

che quell’incursione di piume sbatacchiate

nasconda una specie di sotto-testo.

 

 

 

Il poeta si scusa per lo spavento

e per qualche beccata alle mani.

Il viaggio transoceanico

avrà scosso gli animali.

Succede anche agli uomini:

la digestione si affatica i nervi

si attorcigliano e l’arrivo

non è mai un approdo.

Pensava di mandare avanti

gli uccelli in volo autonomo

e poi raggiungerli in aereo:

li ha sopravvalutati

gli piace volare da passeggeri.

Chiede un favore prima di andarsene:

aveva detto che sarebbe venuto

anche solo per un piatto di ceci.

Era sincero ma nel cuore sperava

di non essere preso alla lettera

almeno una volta: gli basterebbero

i soldi per il ritorno dei piccioni.

 

 

 Promemoria del poeta colombiano

 

Maledette le metafore e le similitudini

maledetto chi me le ha soffiate

nell’orecchio da bambino.

Maledetti i gigli e la loro bianchezza

che nessuno schizzo di liquame

può macchiare. Avevo otto anni  

una mia compagna di scuola

più bruna di me aveva fatto

una poesia: paragonava l’anima

di Gesù Cristo a un giglio purissimo.

Giuro quella metafora scialba

ha cominciato a lavorarmi dentro

fibra dopo fibra, tèndine dopo tèndine

mi ha aperto uno squarcio di invidia

inimmaginabile. In una settimana  

ho riempito sei quaderni

di poesie religiose: non ce n’era una

che fosse un po’ meno scialba.

Chi ti rovina è la maestra che ti ascolta

e ti chiede di “coltivare il dono”

che nessuno ti ha dato. Poi sigilla

il giudizio con la firma sulla pagella

perché qualcuno ci creda davvero

che sei un poeta alto un metro e trentotto.

Per nove minuti ci hai creduto anche tu.

Da qualche anno vado in giro

a leggere i miei versi: suonano

sempre fragili e ammaccati.

Li nascondo dietro un arabesco

spettacoli di magia prevedibili.

Provo a distrarre gli sguardi.

La mia è un’ossessione stanca

che toglie il sonno e non dà niente in cambio

è un privilegio da accattoni

ma continuo a cercare un giglio impuro tra i sassi.

 

 

L’artista del sonno

 

Non riesci a ringraziarlo

per i suoi insegnamenti: sta dormendo.

Ti aveva detto che per coerenza

avrebbe dormito anche allora.

Si è presentato la prima volta nella

tua stanza quando il tuo corpo era già

d’accordo: eri disteso sul letto sfioravi

un libro la mezza intenzione di aprirlo.

Quel giorno aveva il volto di tua madre.

Ti ha detto accarezzandoti la testa:

Ci siamo quasi. Adesso chiudi gli occhi.

Spengo la luce attutisco i rumori.

Vedi ho le babbucce ai piedi.

Vuole starti vicino cambia forma:

a scuola: professore di educazione fisica

sulla strada: ragazza in vestaglia azzurra

dal dottore: dottore che annuisce.

Ieri sonnecchiava nella vena

arrampicata sulla tua gamba.

Se ti confidi con lui ti guarda

incuriosito sorridendo non può

guardare ti accorgi che indossa

due occhi finti sempre spalancati.

Gli chiedi di accompagnarti al parco

accetta volentieri: devi solo

portarlo sulle spalle e posarlo

delicatamente su una panchina.

Puoi rimanergli accanto non parlare

se vuoi ascoltare l’ultima lezione

non svegliarlo.



[1] Le Caldane sono bagni termali di origine etrusca, nei pressi di Colle di Val d’Elsa (SI). Quello che ne resta, dopo che distruzioni e discutibili ricostruzioni ne hanno cancellato la forma iniziale. Mio zio, toscanissimo e marxista, ci sogna il mare d’estate.

Canio Mancuso (Melfi, 1971). Cresciuto a San Severo, attualmente vive a Omegna. Nel 2004 fonda il mensile umoristico “Za!”. Dal 2005 al 2006 è redattore del periodico “Sguardi”. Ha scritto o scrive per i periodici “Fermenti”, “Le reti di Dedalus” e “Christianitas”, e per i quotidiani “L’Attacco”, “Capitanata.it” e “Zeroventiquattro.it”. È citato nel volume Letteratura del Novecento in Puglia (Progedit, Bari 2009 e 2010), a cura di Ettore Catalano. Alcune sue poesie sono apparse su antologie e riviste, tra cui: “Fermenti”, “Gradiva”, “Poliscritture”, “Poetarum Silva”, sulla rivista spagnola “Ómnibus” e sulla francese “Lichen”. Nel 2015, insieme a Raffaele Niro, cura l’antologia Sotto il più largo cielo del mondo. Trenta poeti dauni, numero speciale dei “Quaderni dell’Orsa” (Besa Editrice). Nel marzo 2016, ancora con Besa, pubblica la raccolta di poesie Fiammiferi, tradotta in francese e prossimamente in uscita con Hippocampe éditions. Nel 2018 pubblica Il lato destro dell’armadio (Giuliano Ladolfi Editore). 




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